Anteprima de

La tua morte mi fa bella

La tua morte mi fa bella di Ivano Migliorucci Come per gli anni precedenti, anche quell’estate decisero di passare le vacanze insieme. Lavoravano nella stessa ditta, Serena nell'ufficio amministrativo, Michela, cieca dalla nascita, al centralino. Era il loro primo, e unico, lavoro. Michela aveva trovato in Serena un'amica sincera, tanto da non poterne fare a meno, e non per svolgere le normali attività giornaliere, quanto per la sua presenza. Sapere che c'era rallegrava il suo risveglio, anche se il nuovo giorno aveva, per lei, lo stesso colore della notte. Erano un punto d'appoggio l’una per l'altra. Serena aveva un viso d'angelo in un corpo sgraziato, disarmonico. Il classico triangolo: spalle strette, bacino immenso, seno neanche a parlarne, in compenso pancia prominente. Era bersaglio di scherno da sempre, nonostante per contrasto, avesse quei lineamenti dolcissimi, circondati da capelli simili alla canapa. Sembrava quasi che il suo creatore, sbigottito da quel volto, avesse voluto punirla. In ogni caso, aver subito per trent'anni canzonature da ogni parte, aveva indurito la sua scorza, una corazza che teneva lontano tutti tranne Michela, l'unica persona amica della sua vita, di tutta la sua vita. A lei voleva veramente bene, mentre per gli altri c'era solo odio. In uno dei rari momenti di slancio verso il prossimo, aprì il suo cuore a Maurizio, una speranza sfiorita appena lui rese noto di avere una moglie, delusione appena attutita dalla promessa di lasciarla. E lei stava ancora aspettando. Partirono il primo di Agosto con l'auto di Serena, che le assomigliava, era trascurata e dimessa, oltre che piena di ammaccature. Lasciavano il loro appartamento al quarto piano di un piccolo palazzo alla periferia di Pavia per recarsi nelle Marche, avevano deciso di abbinare il mare alla cultura. La destinazione, di solito, la decideva Michela, la più risoluta delle due. Serena sbrigava le incombenze ordinarie: telefonate, prenotazioni, bonifici per gli acconti. «Eccoci arrivate» annunciò Serena spegnendo il motore «è una bella villetta, proprio come nelle foto.» «Ti credo sulla parola» commentò l'amica aprendo la portiera per scendere. Scaricarono i bagagli. «Vieni, andiamo a esplorarla.» Serena prese per mano l'amica e le fece visitare tutta la casa, più volte, per memorizzarne gli spazi. La casetta era poco lontana da Numana, una bella cittadina vicina al promontorio del Conero. C’era una lunga costiera con un bel mare e tanti stabilimenti organizzati. Le due amiche, però, preferivano le spiagge libere, soprattutto Serena. Meglio l'ammasso di folla sempre nuova alla linearità di lettini e ombrelloni. I primi due giorni passarono nella massima tranquillità, per il successivo era prevista una forte nuvolosità, così decisero di iniziare con la fase culturale della vacanza. Recanati era una delle tappe che non volevano mancare. Durante la visita alla casa di Leopardi, conobbero Angela e Luisa e cominciarono a parlare. Fu nella casa del Poeta che Serena ricevette un messaggio, e finì la gioia. Sperava che alla fine della visita ognuna se ne andasse per conto proprio, ma non fu così; con Michela organizzarono di cenare insieme. La decisione la urtò molto, non ne fece parola ma si estraniò, non partecipando alle chiacchiere delle altre. Finalmente quella serata finì ma le nuove amiche si accordarono per rivedersi. Serena sperava fossero i soliti saluti pieni di buoni propositi, destinati a fallire. Michela, mentre tornavano alla villa, affrontò il problema. «Non meritavano il tuo silenzio, sono due ragazze simpatiche.» «Ragazze» ironizzò Serena «potrebbero essere nostre madri» mentì con cattiveria. «Hanno la nostra età, non prendermi in giro.» «Scusa, ma non era serata.» «Maurizio?» «Anche, ma è tutto in generale, domani andrà meglio.» «Quando vuoi mi racconti. Domattina andiamo in spiaggia prestissimo, quindi ora a letto.» «Non ho sonno» Serena guidava con calma ma le lacrime le scendevano sulle guance. «Ora ti accompagno e me ne vado a fare un giro, da sola, scusami per tutto, domani andrà meglio.» Accompagnata l'amica fin dentro casa, Serena si rimise in auto e cominciò a girare per strade che non conosceva. Ricominciò a piangere, questa volta a dirotto. Maurizio aveva deciso, sarebbe rimasto con la moglie; solo promesse vane le sue. Maledetto, lui e la sua famiglia! Si diresse verso la campagna, lontano da strade ancora piene di villeggianti con la voglia di divertirsi. Odiava la loro felicità e la propria vita. Percorse chilometri di strade deserte e buie, superò cascine, piccoli gruppi di case, viottoli sterrati. Si era persa. Mentre provava a raccapezzarsi, cercò il cellulare, non sperava d'incontrare qualcuno e aveva bisogno del navigatore. Si allungò sul sedile per raggiungere la borsa e sentì il botto. Alzò la testa e vide una massa di capelli neri, lunghissimi, scivolare sul parabrezza. Aveva investito qualcuno, sperava una bestia, ma i capelli non potevano essere di un animale. Frenò di colpo, scese e per prima cosa controllò la macchina con una torcia elettrica; solo un po' di sangue sul vetro, avrebbe verificato meglio l’indomani, con la luce. Poi si dedicò al corpo disteso sull’asfalto: era una ragazza. Scoprì che le aveva spaccato la testa, aveva un piccolo taglio proprio sulla tempia. Non si muoveva, la girò; era molto bella, e che capelli meravigliosi. Non era stata una gran botta, ma sufficiente a ucciderla sul colpo. Forse non si era neanche accorta di morire. Ma adesso era un problema. Serena prese la sua decisione. Se ne sarebbe fregata, non l'aveva vista nessuno, la macchina non aveva segni, se non un po' di sangue da lavare. Lungo la strada c'era un campo di granturco già alto, con un po’ di fortuna sarebbe passato quasi un mese. Oddio qualcuno avrebbe potuto cercarla, ma chissenefrega pensò, e la trascinò per un tratto all'interno del campo. Fu una faticaccia ma ci riuscì. Tornò alla macchina stanca e sudata, prese un fazzoletto e cominciò ad asciugarsi, si passò una mano sulla testa per ravviare i capelli. Le dita non s'incastrarono tra le ciocche, anzi, scorrevano lisce fino in fondo, se le sentiva cadere sulle spalle con una leggerezza nuova. Si spaventò, ma doveva fuggire da lì prima che arrivasse qualcuno. Partì, una mano sul volante e una sulla testa, sceglieva la direzione a caso, solo per allontanarsi mentre continuava ad accarezzarsi. Poi, finalmente, un incrocio con i cartelli, girò a destra, c'era un bar aperto e aveva bisogno di uno specchio. Prima di scendere mise il solito foulard che le copriva la testa. Nel locale c'erano solo quattro persone a giocare a carte e il padrone dietro il banco,