Anteprima de

RISCATTO

6 Giugno, 2016, martedì

Il cielo sopra Pavia cominciava a imbrunire e il crepuscolo celava cose e persone. Un lampione, lontano, creava un cono di luce, illuminando una parte di giardino. I due uomini lo evitarono, preferendo muoversi nella penombra, tra gli alberi del piccolo parco di fronte al Castello, spettatore di tutti i loro incontri. Quella sera era l'ultimo, non c’era tempo per altri. Nelle settimane precedenti avevano sviscerato tutti i casi che potevano accadere. I ruoli di ognuno erano ben distinti, studiati nei minimi particolari, mesi di preparazione per uno o due giorni di recitazione, con l’incubo della casualità delle cose, di ciò che non si può prevedere. Il loro progetto stava cominciando e avrebbero dovuto procedere senza tentennamenti.

«Allora ci siamo.» Affermò il più anziano.

«Sì, domani cominciamo caro il mio Barbaro… toglimi una curiosità, non te l’ho mai domandato, ma perché Barbaro?»

«Perché quando andavo a scuola mi stavano sulle palle i Romani, e allora me l’hanno affibbiato. Da anni non mi chiama più nessuno così, ma per quello che ci riguarda è perfetto.»

«Certo, niente nomi.»

«Allora si va a incominciare, e che qualcuno ci assista» concluse.

Si strinsero forte le mani, cedendo poi a un abbraccio di incoraggiamento, prima di allontanarsi in direzioni opposte: uno verso Strada Nuova, l'altro alla sua auto, parcheggiata lungo il Naviglio.

Barbaro avviò il motore, con calma si immise nel traffico dirigendosi verso casa, dove suo figlio lo stava aspettando. Mancavano solo due giorni all'inizio, dovevano controllare insieme la propria parte, era noioso, ma ripetere tutto li avrebbe aiutati a non commettere errori, e allora non c’erano alternative a essere scrupolosi, fino allo sfinimento.

Iniziarono subito, il padre si schiacciò forte le tempie, quel dolore atroce stava arrivando ancora una volta, e come sempre all'improvviso, non erano appuntamenti programmati e cominciavano a essere sempre più frequenti.


8 giugno, giovedì mattina ore 8,30



Il cielo era terso quella mattina di giugno, tutto di un azzurro luminoso, tranne che per un frammento, verso le colline, coperto da un nuvolone grigio. Alle nove di mattina il sole non è ancora forte, ma per quell'ammasso d'acqua non ci sarebbe stato futuro, sarebbe letteralmente evaporato.

Barbaro arrivava da Corso Cavour, guardò il semaforo di Piazza della Minerva, calcolò che camminando più veloce l’avrebbe raggiunto al verde. Aumentando il passo urtò una signora, non con violenza, ma fu costretto a rallentare, era stata colpa sua, ma questo non gli bastava.

«Perché non guardi dove vai, nonnina?» Domandò con insolenza.

La signora lo squadrò, non pareva che fosse più anziana di lui.

«A chi nonnina?» Rispose piccata. Non si fermò nemmeno ad ascoltarla, si stava già allontanando velocemente.

«Vai vai, se no ti scordi la strada di casa. Tanto con quella camicia ti ritrovano subito.» Gli urlò dietro. La donna continuò a guardarlo correre, poi fece spallucce, si girò e continuò per la sua strada.

Nonostante la corsa, non arrivò in tempo, il rosso brillava forte dall'altra parte della strada e da Viale della Libertà cominciarono a salire le auto. Tentò ugualmente di attraversare, il gruppo delle macchine gli arrivò vicino, prima di frenare di colpo, un guidatore più nervoso pigiò sul clacson, seguito poi dagli altri. Un bel trambusto, che attirò l'attenzione di un vigile. L’agente portò il fischietto alla bocca, ma non ci soffiò dentro. Barbaro era riuscito ugualmente ad attraversare, si stava già allontanando e il traffico tornava scorrevole.

Si fermò solo per buttare la lattina vuota di chinotto, nel cestino dell'aiuola in mezzo al passaggio pedonale. Approfittò della sosta per sistemare lo zaino che portava sulle spalle, dette un'occhiata all'orologio e riprese il cammino verso il piccolo Centro Commerciale, dirigendosi poi al capolinea degli autobus.

Era in orario: vide il pullman fermo, in attesa di partire, con le portiere aperte, qualcuno già seduto dentro e altri che salivano; sperò non fossero in molti, sarebbe stato più facile sorvegliarli. Era la prima gita della stagione organizzata per raggiungere il mare: Arenzano. Oltre a chi partiva da Pavia, altri ne avrebbero raccolti per strada, almeno questa era l’idea dell’organizzatore. Il pullman era di un bel colore rosso, con macchie a forma di nuvole multicolori, e con il nome del tour operator in giallo scritto in mezzo. Andò a sedersi in fondo, accanto a un ragazzo dai capelli lunghi, lisci e unti, qualche piercing, e un tatuaggio a forma di ragnatela sul collo, decisamente un tipo non comune. Nell’avvicinarsi gli fece un cenno d’intesa, il giovane rispose, erano pronti.

L'orario di partenza, le nove meno un quarto, fu rispettato. Dalla sua posizione riusciva a osservare tutto l'interno dell'autobus, memorizzò il numero e la posizione dei passeggeri, oltre a lui e al ragazzo erano quindici: quattro uomini, sette donne e quattro bambini, impegnati a gareggiare sul numero delle cose che vedevano dal finestrino. Stavano superando il ponte dell'Impero quando gli arrivò ancora una stilettata alla testa, appoggiò le mani sulle tempie e strinse con forza, piano piano superò anche quel malessere.

La prima fermata, per raccogliere altri viaggiatori, era a San Martino Siccomario, di fronte al Comune. Sarebbero dovuti entrare in paese, perciò l'autista, avvicinandosi alla deviazione, mise la freccia a sinistra e cominciò a frenare. Il ragazzo tatuato interrogò Barbaro con lo sguardo, ne ottenne l'approvazione con un lieve movimento del capo. Accennò un sorriso alzandosi e si avviò appoggiandosi ai sedili. Attraversò completamente il mezzo e arrivò alle spalle dell'autista che intanto si era accostato per girare e, quando si accorse di avere qualcuno alle spalle, controllando dallo specchio senza voltarsi, gli intimò:

«Signore, non può stare in piedi, deve sedersi.»

L'altro non si mosse, ma replicò con voce ferma.

«No, ho altri progetti, che da questo momento diventeranno anche i tuoi, perciò farai esattamente quello che ti suggerirò io.» Così dicendo gli sfiorò una guancia con la canna della pistola. «Ora ascoltami bene, non dovrai fare altre tappe, saltiamo tutte le fermate da qui a Voghera, poi ti dirò il resto. E' tutto chiaro? Puoi svolgere questo semplice compitino senza fare cazzate?»

«Credo di sì.»

«Credi, solo questo?»

«Sono sicuro.»

«Uhm, bene» e gli dette una pacca sulla spalla «non avevo dubbi che ci saremmo capiti.»

Una volta certo che avrebbe fatto come lui voleva si rivolse al resto dei viaggiatori e mise ben in vista la pistola. Anche se cominciavano a capire cosa sarebbe successo, era meglio spiegarlo in modo chiaro, e per farlo lasciò la parola all'uomo in fondo all'autobus, invitandolo a venire avanti per illustrare come si sarebbero svolte le cose da quel momento in poi.

Barbaro lo raggiunse, seguito dallo sguardo di tutti, tranne dei bambini, che continuavano a scoprire cose nel mondo esterno.

Nessuno parlò, la pistola in mano al ragazzo calamitava l'attenzione. Si sentì addirittura il rumore dei passi. Barbaro non parlò subito, osservò con calma gli sfortunati passeggeri, come in una prova di forza li guardò intensamente negli occhi uno alla volta, fino a fargli abbassare lo sguardo. Doveva mettere in chiaro chi dava gli ordini. Solo quando tutti cedettero cominciò a parlare, molto lentamente.

«Per prima cosa voglio dirvi che non abbiamo alcuna intenzione di farvi del male, ne usciremo tutti bene, almeno questa è la nostra speranza, che voi condividerete sicuramente, vogliamo tutti tornare a casa, giusto?»

Nessuno rispose, solo una donna annuì col capo. Un bambino, che aveva smesso le esplorazioni esterne, cominciò a piangere. Prima di continuare a parlare, sempre con molta calma, si avvicinò a lui, gli accarezzò la testa, chinandosi per baciargliela, poi mise una mano in tasca e ne tirò fuori caramelle. Attirò l'attenzione anche degli altri bimbi, e ne offrì una per uno. Poi ricominciò a spiegare:

«Credetemi, tutto finirà nel migliore dei modi, nessuno avrà problemi, se vi sforzerete a fare quello che vi chiederemo. Intanto dobbiamo arrivare alla nostra destinazione, vi domando una cortesia, consegnate i cellulari al mio amico, lo farete dopo averli spenti, non vorremo essere disturbati da curiosi, vero?»

La richiesta fu posta con garbo, dando a tutti una certa serenità.

L'operazione si svolse nella massima tranquillità, i cellulari finirono in una borsa, messa poi su una retina in alto.

Il viaggio procedette tranquillamente, tranne un piccolo episodio, dove la tensione salì pericolosamente.